sQuola di Babele – La Cour de Babel

10 aprile 2015 by

Metti che ti invitano ad un’anteprima di un film, no?
Prodotto e distribuito in Italia da una casa indipendente, la KitchenFilm, per cui lavora una tua amica, che ti dice DAIDAIDAI VIENIVIENIVIENI.
E tu che fai? Mi pare ovvio, ci vai.

Fidandomi ciecamente della mia amica, non mi informo neanche sul nome del film, non so di cosa tratta, non conosco il genere, insomma arrivo al Multisala Lux con la predisposizione d’animo di un appuntamento al buio, e scopro che il film è francese, IN francese, sottotitolato in italiano, che in realtà è un documentario, ed che è stato interamente girato in una scuola media francese di Parigi.
Ora, non voglio fare l’intellettualoide hipster, quindi confesserò che prima dell’inizio del film, si era affacciata alla mia mente la possibilità che potesse essere leggermente pesante, o quantomeno noioso.

E invece no.
E’ bello. E’ interessante. Non pensavo avrei mai potuto dire una cosa del genere di un film-documentario, ma addirittura ha ritmo. La pesantezza intrinseca delle storie raccontata è trattata con la leggerezza dello sguardo limpido di chi guarda e racconta senza giudicare nè interpretare.
Ti trascina con prepotenza dentro ad una classe di accoglienza di un istituto parigino, dove si trovano i “protagonisti”, ragazzi dagli 11 ai 15 anni che vengono accompagnati nell’integrazione scolastica puntando innanzitutto sull’insegnamento intensivo del francese, ma soprattutto sull’accettazione della diversità e sulla convivenza tra piccole persone provenienti da tutto il mondo (e quando dico tutto, intendo proprio TUTTO: Cile, Brasile, Cina, Irlanda, UK, Africa….).
Come fa a non essere noioso, mi chiederete voi?
Innanzitutto, non c’è una voce narrante.
Potrà sembrare una stupidaggine, ma gli spiegoni alla Alberto Angela vanno forse bene per la storia e la natura, ma quando riguardano contesti umani, quando riguardano le persone, sono sempre fuori luogo. Spesso condiscendenti o moralizzanti, le voci narranti ti fanno sentire stupido e levano autenticità e freschezza ai protagonisti veri.
Qui, gli unici a parlare sono i ragazzi, i loro genitori e l’insegnante.
Non mi metterò qui a straparlare del periodo adolescenziale come periodo difficile di transizione blablabla che noia: i ragazzi parlano per loro, e non sono affatto tutti uguali e inscatolabili sotto un’unica etichetta “adolescenti emigrati-emarginati”: ci sono i secchioni, ci sono quelli bisognosi di attenzione, ci sono i timidoni, ci sono quelli già adulti e quelli ancora oppressi, i rifugiati politici, quelli che a Parigi non ci volevano venire, quelli che sono gli unici in famiglia a parlare francese.
Il pregio del tutto è l’asciuttezza della narrazione, la sua spontaneità.
Lo stile di narrazione di Julie Bertuccelli mi ha ricordato quello di Ágota Kristóf: è un paragone un po’ ardito, lo so, ma se ci pensate, entrambe si limitano a narrare (per immagini o per parole) dei semplici fatti, nudi e crudi, così come sono; e questo evitare come la peste ogni tipo di interferenza di opinione o di interpretazione, ti permette di guardare il film e di scegliere, liberamente, senza nessuna “spintarella” ideologica, che cosa pensare, ti permette di fare le tue valutazioni in completa autonomia.
Questo è un pregio da non sottovalutare: siamo così abituati a sentirci dire che cosa pensare, che una film del genere ti mette in moto il cervello.

Insomma, il film esce nelle sale italiane il 23 aprile.
Io, se fossi in voi, un’oretta e mezza la spenderei così, ad accendere il cervello, e a farvi commuovere dalle storie dei piccoli grandi protagonisti.

Le mie morti: il capitolo conclusivo che non ho scritto

31 marzo 2015 by

Benvenuti, miei giuovini amici, alla nuova ed ultima puntata degli allegri post mortuari.

Vi ricordate? Giusto per allietare le vostre giornate, avevo già deposto un paio di articoletti a dir poco allegrotti, uno qui e l’altro qui, e ve ne avevo promesso un terzo.

Quest’ultimo riguarda (o meglio, avrebbe dovuto riguardare, se lo avessi scritto) la scomparsa di mio nonno materno, Aldo, anche detto Bianco dai suoi adorati e simpaticissimi nipoti.

Ebbene, ormai è più di un mese che provo in tutti i modi a scriverlo. Butto giù una bozza, la cancello, la riscrivo, la rileggo e non va mai bene.

Perché non ci riesco?
Non mi esce incisivo come lo voglio. Mi viene da raccontarvi la sua vita, o almeno la parte di vita che si è incrociata con la mia, ma allora mi servirebbe un libro!
Quasi 30 anni di presenza costante, che non posso e non voglio sminuire in un singolo post.

Dopo un paio di settimane ho smesso di tentare, mi sono concessa una piccola pausa di riflessione.
Che ha funzionato.

Adesso ho capito perché non posso scrivere una trilogia di post sulle morti significative della mia vita.
Luciano e Valerio sono stati importanti nella mia vita, proprio nel momento della loro scomparsa.
Hanno agito da destabilizzatori in alcuni momenti molto particolari, aveva senso descrivere la loro influenza, in quest’ottica.
Le loro scomparse sono state degli spintoni sul tragitto della mia vita, che mi hanno fatto deviare pesantemente dalla linea retta che seguivo, imperturbabile ed immobile.

Nonno Aldo, invece, lui non c’entra niente con questa serie di post. L’ho concepita male dall’inizio, la mia idea, non ho approfondito abbastanza, non ho scavato a sufficienza per capire che lui non c’entrava con loro.
Ad influire pesantemente sul mio cammino personale, sulla mia esistenza, sul mio carattere, non è stato l’avvenimento o le circostanze della sua morte, ma la sua intera vita, corsa sempre e costantemente parallela alla mia.

Nessuno scossone, nessuna spallata, solo qualche aggiustamento, discreto e quasi invisibile, qua e là.

Contenti? Un post presammale in meno in giro per l’internet!

Verdena @ Atlantico, Roma, 09/03/2015

11 marzo 2015 by

Di recensioni sui Verdena questo blog è pieno zeppo, quindi stavolta non avevo intenzione di scriverla.
Però ho notato che in giro ce ne sono davvero poche (in realtà ho trovato solo questa, oltre a tante foto), e allora oh, mi sacrifico per il bene della cultura.
Lo faccio solo per voi, eh?

Iniziamo dall’inizio: i Jennifer Gentle.
A me, non sono mai piaciuti. Non li capisco: ci ho provato, ma niente. Li trovo sconclusionati, a volte frustranti, e non riesco ad apprezzarli in pieno, però facile che so io, eh? Ormai c’ho na certa, tanta roba nuova considerata di valore da gente più esperta di me io non la comprendo.

Quindi senza indugio alcuno, passo al piatto forte.
Il concerto inizia puntuale (meno male, sennò domani chi c’arriva in ufficio?) con 3 brani di Endkadenz, Vol. I. Ho già espresso in precedenza le mie personali perplessità su Endkadenz, ma devo ammettere che il muro di suono che mi ha investita con “Ho una fissa” mi ha positivamente sconvolta: dal vivo è stata una robetta niente male. Personalmente poi ho apprezzato moltissimo anche “Sci desertico”.
L’Atlantico era pieno, ma neanche troppo (ottima la scelta dell’organizzazione, visto che i biglietti erano sold-out da parecchio, di non stipare troppo il locale), con un’età media non troppo bassa, e tanta gente che ha già memorizzato l’ultimo album.
Invece mi ha fatto strano vedere tante persone, scalmanate e urlanti sui pezzi degli ultimi 2-3 album, rimanere tiepidine di fronte a “Starless” o “Valvonauta”.
Il che mi sembra comunque un buon segno della crescente e meritatissima popolarità dei Verdena, che stanno riuscendo a conquistare pubblico “nuovo”, oltre al solito zoccolo duro irriducibile da 15 anni.
E sicuramente il pubblico dell’Atlantico non può essere rimasto indifferente allo spettacolo di lunedì sera.
I suoni praticamente perfetti, un’amalgama impeccabile che una volta tanto fa ascoltare anche la voce di Alberto.
Al solito, tanti cambi di strumento soprattutto per lui, pochissima interazione col pubblico, insomma niente di nuovo nè di spiazzante. Qualche video proiettato dietro di loro, che non ha catturato molto la mia attenzione.
Il nuovo acquisto, Giuseppe Chiara, quasi invisibile complemento, perfettamente amalgamato nel tutto, ha fatto breccia nel mio cuore non facendosi quasi notare.

Ovviamente non ho stilato una scaletta, ero troppo impegnata ad emozionarmi, ma oltre alle già menzionate posso farvi rosicare pesantemente per non essere venuti (o compiacermi insieme a voi se c’eravate) con robetta tipo “Luna”, “Lui Gareggia”, “Attonito”, “Canos”, una esplosiva e sempre coinvolgente “Scegli me”, una sottovalutata dai più esigenti rompipalle “Muori Delay”, la spassosa “Loniterp” e le sempreverdi “Don Callisto” e “Requiem”.
Chiude il tutto “Funeralus”, che non mi convinceva già dal disco, e non mi ha entusiasmata neanche dal vivo.

Insomma, ma che c’è da dire su un concerto dei Verdena? Sono così potenti, emozionanti, energici senza essere mai presuntuosi. Sono sinceri, sono giovani ma maturi, fragili ma indistruttibili.
Fisicamente e socialmente lontani dal pubblico, che tanto a noi ci basta la musica buona fatta bene per uscire entusiasti ed affrontare con serenità la sveglia del martedì mattina.

Ebook reader: una storia di Amore-Odio

25 febbraio 2015 by

La mia avventura nel mondo degli ebook reader comincia a Natale 2012, grazie ad un regalo: il Kindle di Amazon.

Parliamo proprio della preistoria dei reader di Amazon, che adesso non si vende neanche più. Il massimo della tecnologia che può sfoggiare è la connessione wi-fi per scaricare i libri. E basta.
Non è touch, non è a colori, non è retroilluminato, non è niente: è uno schermo su cui si possono leggere le parole.
Senza luce non si legge, e le pagine si girano con un pulsantino invece che scorrendo un ditino sullo schermo, ma ha comunque i suoi pregi: è la cosa che effettivamente più si potrebbe avvicinare ad un libro di carta, la batteria dura settimane intere, e in borsa pesa come un pacchetto di sigarette. Vuoto.

Inizialmente ero scettica, non pensavo che sarei riuscita davvero ad abbandonare del tutto i libri di carta; ma mi buttai comunque a capofitto e con convinzione nella nuova avventura.
Registra il dispositivo, fai l’account, comincia a scaricare libri aggratis per vedere come funziona, setta le impostazioni, etc etc.
Mi conquistò immediatamente, soprattutto perché ogni giorno Amazon propone delle offerte di libri, solitamente 3 titoli, dai 0,99 a 2,99 euri, con sconti molto forti sul prezzo iniziale, anche 90%. Certo, non sono sempre titoli interessanti, ma il numero fa la forza: con 3 libri al giorno a quei prezzi ridicoli, qualcosa da leggere si trova sempre, soprattutto se non fate gli schizzinosi intellettualoidi e ogni tanto vi abbassate anche a leggere un romanzo di u autore che non abbia mai vinto un Nobel per la letteratura.

In più, il Kindle primordiale è talmente piccolo e leggero che il 95% dei libri di carta che possiedo non regge il confronto, e dulcis in fundo, contiene più libri.
Tanti libri.
Tutti quelli che ti servono per sopravvivere.
Tutti quelli che non troverebbero mai spazio in 35 mq di casa abitata da 2 persone.

Ora, capisco che per qualcuno queste ragioni non siano affatto sufficienti a considerare l’abbandonare la carta, ma per me sì. E lo sarebbero anche per tutti i pendolari delle grandi città del mondo.
Il mio viaggio da/verso l’ufficio è un quotidiano esodo biblico che prevede quasi un’ora di metropolitane e 20 minuti di camminata a piedi. Più ritorno.
Capirete bene che la leggerezza della borsa e la manovrabilità del Kindle ti salvano la vita, soprattutto perché ti permettono di leggere E voltare pagina utilizzando una mano sola, lasciando libera l’altra di scaccolarti, pettinarti, aggiustarti i pantaloni, farti lo shampoo o reggerti agli appositi sostegni della metropolitana.
Insomma, per i primi mesi fu un vero idillio. Non mi mancava molto neanche girare per le librerie vere, a dir la verità.

Nel complesso, risparmiavo (anzi, risparmio tuttora) denaro, tempo e spazio.

E l’odio del titolo, allora?

Ah sì, QUELLO.

E’ cominciato a crescere dentro di me dopo qualche mesetto dall’inizio del nostro idillio.
Io leggo per puro piacere, semplice passatempo, non certo per studiare o memorizzare, mi piace intrattenermi con belle storie scritte bene. Punto.
Il problema mi si è però cominciato a presentare quando mi sono accorta che non ricordavo mai né l’autore né il titolo del libro CHE STAVO LEGGENDO IN QUEL MOMENTO.

Com’è possibile? La risposta è abbastanza facile: non avendo mai il libro vero e proprio tra le mani, la semplice vista (e conseguente memorizzazione inconscia) che avviene quando tiri fuori il libro dalla borsa, lo prendi in mano e poi lo apri, si perde completamente.
Il titolo e l’autore del libro li leggerai si e no 3 volte: quando lo scarichi, quando lo cominci, e quando lo finisci.

Per me, 3 volte non sono sufficienti. Per quanto mi possa essere piaciuto il libro, l’unico modo per fissarlo davvero nella mia memoria è scriverci una recensione, altrimenti è andato, perso. Come se non lo avessi mai letto.
Ora, va bene che non ci studio e che leggo per puro divertimento, ma così è veramente troppo!

Ma la fonte del mio odio non è limitata solo a questa causa.
Trovo anche ESTREMAMENTE frustrante non poter scorrere le pagine.
Non sapere quanto manca alla fine o quanto ho già letto dall’inizio; non poter scorrere indietro fino a trovare il nome di quel personaggio citato a inizio libro; non poter leggere agevolmente le NOTE!!!
Le NOTE SONO IMPORTANTISSIME! Pensate a come potrebbe essere leggere un libro di D.F.W. senza facile accesso alle note: è IMPOSSIBILE! Tanto vale non leggerlo!

Vabbè Silvia, ma allora smetti di usarlo e comprati i libri veri, mica c’è un manipolo di terroristi che ti costringe con la forza ad usarlo, ‘sto Kindle.

EH NO! E’ per questo che lo odio! Ormai mi sarebbe impossibile rinunciare alla comodità pratica di cotal oggetto.
Non ho spazio in casa, non ho spazio in borsa, non ho tempo per la visita fisica alla libreria, non ho soldi per comprare tutti i libri che vorrei leggere a 18 euri l’uno!
Io ormai sono dipendente dal mio Kindle. E odio essere dipendente dal Kindle, ma, ad esempio, l’anno scorso ho letto Il Conte di Montecristo, e Guerra e Pace: come avrei mai fatto a portarmeli in giro quei mattoni infiniti?
E finire un libro la mattina, ed avere la possibilità di cominciarne subito un altro? E’ insostituibile.

Eppure, continuerò a rimpiangere tutte quelle azioni, coscienti o non, che mi aiutavano davvero a capire un libro nella sua interezza: il controllare un fatto dimenticato successo nel Capitolo 2, o rivedere l’albero genealogico o la mappa dei territori della storia all’inizio del libro, o leggere agevolmente le note che spesso sono inutili, ma che a volte ti risolvono la storia.

CONSIGLIO FINALE: Non comprate un ebook reader. E’ come l’eroina: non potrete più farne a meno, ma rimpiangerete di aver iniziato.

Le mie morti: Luciano.

19 febbraio 2015 by

Questa serie di post un po’ lugubre è nata proprio pensando a Luciano.

Qualche giorno fa ero in metropolitana, e pensavo in generale che, per quanto il 2014 sia stato un anno di merda, Novembre mi aveva risparmiata.
Novembre è diventato il mio spauracchio, il mese di cui avevo terrore e che ogni anno attendevo con ansia malcelata, il 9 Novembre 2008, quando Luciano morì in un incidente di moto.

Chi era Luciano?

Più significativo di Valerio nella mia vita, Luciano è stato il mio secondo fidanzatino, e il primo “importante”.
Credo di aver avuto sempre intorno ai 16-17 anni (scusate la vaghezza temporale che accompagna questi post, ma sapete bene che l’adolescenza può diventare nebulosa già mentre la si vive).
Vi ho detto che Valerio era un bel ragazzo? Mbè, anche Luciano. Di altezza media, magro, biondo e con gli occhi di ghiaccio, aveva un sorriso un po’ da Joker, con gli angoli della bocca sempre rialzati anche quando era incazzato.

Il nucleo della combriccola eravamo io, Luciano, S. e V., più una serie di altri personaggi random che ci gravitavano intorno. Stavamo insieme tutti i pomeriggi, quasi senza eccezione, e ce la cavavamo bene anche senza cellulari per gli appuntamenti. Ci telefonavamo a casa, ci davamo luogo ed orario, e ci si incontrava.

Il più delle volte giravamo per Ostia, Vitinia, Casal Bernocchi, Ostia Antica. Non facevamo danni, passavamo tanto tempo sul trenino avanti e indietro, a volte senza biglietto.
Fumavamo sigarette, come se fosse una gran figata, ma ce le smezzavamo sempre perché eravamo sempre senza una lira.

Ogni tanto andavamo in spiaggia, anche se a quel tempo a me mi faceva schifo, il mare. Eravamo tutti bianchi come cenci, ci scottavamo puntualmente.
Io pesavo 20 chili ma, ovviamente, ero convinta di essere grassa, quindi rimanevo vestita in spiaggia, mi sentivo costantemente a disagio.

Eravamo talmente piccoli, che il primo bacio ce lo siamo dato qualche giorno dopo esserci messi insieme: non era estate, ma eravamo andati lo stesso in spiaggia, dalla parte della riserva del presidente, ai Cancelli. Gli amici fecero di tutto perché accadesse, ci lasciarono soli il prima possibile con delle scuse senza senso, ma chi avrebbe mai protestato?

Camminammo un po’ sulla battigia, passammo un canaletto di scolo, ci accoccolammo al riparo di un tronco gigante portato in spiaggia dalla corrente, e lì accadde: il fatidico primo bacio.
Per entrambi non era il primo in assoluto, ma i precedenti erano stati così insignificanti (almeno per me), che nella mia memoria si impresse come il primo “vero”, il primo per cui il contorcimento delle budella non era dato dalla paura di fare qualcosa di sbagliato e di collezionare una figura dimmerda.

Nonostante tutte queste emozioni, io ero pur sempre un’adolescente acida.
Lui era presissimo dalla nostra storia, mentre a me passò subito. Non lo lasciavo, perché mi ubriacava di attenzioni. Adoravo le vignette in cui disegnava legati insieme ma divisi da genitori, impegni, scuola.
Mi scriveva un sacco di lettere, aveva una bellissima scrittura gioiosa, un po’ artefatta forse, ma faceva delle “e” e delle “s” meravigliose.
Era premuroso, sempre pieno di pensieri carini, la trottolina gialla e quella verde, le cassette registrate dalla radio con la dedica per ogni singola canzone.

Ma non vi immaginate uno zerbino: Luciano era un ragazzo forte, già molto indipendente e con le idee molto chiare. Nel gruppetto di dementi che eravamo, la sua personalità spiccava più demente delle altre, era simpatico, faceva ridere, ma era anche un po’ fumino, era facile alla rabbia, ma si dominava bene per essere un 17enne abbandonato dal padre.
Quando lo facevo incazzare con la mia indifferenza, ad esempio, si sfogava facendo flessioni a nastro, chiuso in camera sua.
Era finemente sarcastico, a volte era difficile distinguere lo scherzo. E si stupiva facilmente, di tutto: spalancava gli occhioni azzurri e allargava quelle labbra sottili alla sua risata da Joker.

E questo è quello che ricordo di Luciano a 17 anni.

Com’è facilmente intuibile, dopo l’inevitabile rottura ci perdemmo di vista, molto prima che io mi trasferissi a Bologna. Probabilmente già nel 2000 non ci sentivamo più da un po’ di tempo.
E da qui, comincia il mio periodo felice, lo spiccare il volo (… ok, fuggire a gambe levate) dal nido per il trasferimento in un’altra città, ed il mio passaggio dall’adolescenza verso la vita post-adolescenziale di cui abbiamo già parlato.

Durante quel periodo sviluppai un’abitudine piuttosto strana: come se volessi “ripulirmi” la coscienza dalle malefatte di gioventù, cominciai a scrivere lettere ai ragazzi che mi sentivo di aver maltrattato o preso in giro senza motivo.
Le buttai quasi tutte, erano solo un mio sfogo personale, volevo dirmi: Silvia, hai sbagliato qui, qui e qui.

La lettera per Luciano fu l’unica che spedii. Chissà dove trovai l’indirizzo; comunque presi il coraggio a due mani, l’affrancai e la imbucai. Non ricordo precisamente cosa gli scrissi, qualcosa tipo “Mi dispiace di essere stata così cretina, eri un bravissimo ragazzo e io una piccola stupida immatura, avevi ragione tu”.
E poi me ne dimenticai.

Non ricordo se mi telefonò, o mi mandò un sms: so solo che qualche settimana dopo, mi organizzai per far posto a lui e ai suoi amici nello studentato dove vivevo con altre 6 ragazze: venivano al MotorShow, e giustamente lui pensò di approfittare della mia redenzione per scroccarci qualche mezzo posto letto messo male.
Fu un successo: tutte le mie coinquiline li adorarono immediatamente. Facevano casino, erano simpatici, invadenti al punto giusto, non troppo volgari: erano entrati subito nello spirito di vita dello studentato.

Ho un sacco di prove che dimostrano che le mie gesta (la lettera, l’ospitalità) non nascondessero intenti romantici o nostalgie malcelate:
1- La prima notte Luciano dormì nel mio letto e… non successe assolutamente nulla.
2- Qualche giorno dopo, cominciai una relazione con un ragazzo dello studentato (un altro a cui dovrei una delle mie lettere di auto-redenzione… Magari arriverà, prima poi)
3- In contemporanea, Luciano e una delle mie coinquiline si cominciarono a frequentare in una tormentata relazione a distanza.

Cominciò quindi una frequentazione abbastanza assidua, più che tra me e lui, tra le nostre due combriccole.
Ricordo con particolare tenerezza un viaggio in macchina, la sua Opel Corsa nera, da Roma a Bologna, con un paio di suoi amici. Avevamo ricominciato a frequentarci da poco, e nel caos delle nuove conoscenze, noi due in realtà avevamo parlato ben poco: eravamo, l’un per l’altra, quegli adolescenti acerbi che non avevano nulla a che fare con le persone che eravamo diventati.
Io, ad esempio, dalle loro chiacchiere di discoteche, Rimini, Riccione, Rococò e Chicchirichì, credevo che i suoi gusti musicali si fossero ampiamente divisi dai miei.
E invece quella notte, per smorzare il casino che facevano i suoi due amici dietro (mi ricordo di voi, cari, ma non voglio scrivere i vostri nomi), mi chiese di prendergli il raccoglitore dei CD, ed esclamando “Vedrai come dormono mo’!” mise su Solo Un Grande Sasso dei Verdena,
E infatti, i due giuovini tosto si zittirono, e noi potemmo cominciare il nostro chiacchiericcio sommesso da lungo viaggio a velocità moderata sulla provincialona adriatica.
In quel momento mi confessò che dalla mia lettera aveva capito che io ero diventata una persona orribile e sola, e che stavo ravanando nel passato cercando qualcuno che avesse pietà di me.
Mi confessò che era venuto per godere della mia disfatta umana come persona, per vedere a cosa mi avesse portato la mia attitudine negativa. E invece mi disse qualcosa tipo “Stai da paura, hai cambiato città e sei piena di amici”. Non era molto bravo a parlare di sentimenti, lui era il buffone, quindi questa sua confessione fu molto significativa per me.

In seguito continuammo a frequentarci, più che altro a Bologna.
Lui si lasciò con la mia coinquilina, io invece perseverai nella relazione iniziata da pochi mesi.
Una volta mi costrinse bonariamente ad andare a casa del fratello più grande che vive(?) dalle parti di Budrio, nell’hinterland bolognese. Non ricordo molto di quella serata, tranne una deliziosa nipotina innamorata persa dello zio biondo che non vedeva mai.

Una volta Luciano venne a trovarci sotto Natale. Mia moglie aveva fatto un modesto presepe con le statuine di pasta di sale modellate da noi. Già io, mia moglie e il mio futuro cognato avevamo creato delle figurine poco ortodosse (una piovra, una bambola voodoo di Berlusconi trafitto da stuzzicadenti etc), in più arrivò Luciano e lo trasformò prima in un circo, poi nel Luneur (con giostre annesse), infine in un concerto di Marylin Manson con tanto di programma scritto.

Luciano era un creativo. Nonostante si sforzasse di vestire alla moda, andare a ballare nelle disco fighette e rimorchiare le principesse della notte, era un artista, un artista vero, solo che non lo sapeva. Ideava e disegnava una storia a fumetti in 5 minuti, dal nulla. Eppure preferiva mostrarsi diverso. Forse non credeva molto nelle sue stesse doti, non saprei dirlo.

E poi, così com’era cominciata, la nostra frequentazione scemò, fino ad estinguersi del tutto, nonostante nel frattempo io fossi tornata a Roma.
Esteriormente non avevamo molto in comune: io universitaria hipster mezzo intellettualoide di sinistra che andava alle mostre e ai concerti di gruppetti sconosciuti, lui sempre molto alla moda nelle migliori discoteche d’Italia e alla costante ricerca di lavoro. Gli fluttuavano attorno ragazze molto appariscenti e ben curate, il contrario di me insomma: non mi sarei potuta integrare tra i suoi amici, né lui tra i miei. E così, ci allontanammo di nuovo, mentre ancora qualcuna delle mie ex-coinquiline ancora sentiva lui e i suoi amici, almeno per sms credo.

Novembre 2008.
Sono a Roma, sto affrontando l’inizio della mia carriera nella consulenza in un brutto e vecchio ufficio della sezione informatica della Corte Dei Conti.
Ricevo una telefonata nel mezzo della mattinata da una delle mie ex-coinquiline. Non ci sentivamo da quando avevo lasciato lo studentato per trasferirmi in case private, per un ammontare di almeno 3 anni di totale indifferenza, preceduta da qualche litigata isterica per motivi casuali (stateci voi 2 anni in una casa con altre 6 ragazze, poi mi dite).
Insomma mi chiama, io la ignoro beatamente. Magari vuole qualche soldo di qualche bolletta, cheppalle. Oddio e se sta a Roma, magari mi vuole vedere? Per come è fatta lei, mi chiama per fare una rimpatriata a Bologna. Magari si laurea e mi vuole invitare, dionoperfavore. Desiste.
Mi richiama dopo qualche minuto. Vuoi vedere che è importante? Cedo e rispondo.
E’ importante.
Sul momento penso: Luciano è talmente cretino che ci sta facendo uno scherzo. Che scherzo di merda, sempre il solito. Non mi ci vuole molto per realizzare, salutare, attaccare e scappare a nascondermi. Dopo un’ora, un collega mi ritrova smarrita su una panchina in un parchetto vicino. Mi consola come può, anche se io a malapena gli dico perché sono in quello stato pietoso.
La sera del giorno dopo, l’11 Novembre, è il mio compleanno. I miei vicini, con l’aiuto di mamma e parenti, mi hanno organizzato una festa a sorpresa. Ridiamo cantiamo mangiamo balliamo. Ad una certa, mi sento talmente male che devo andare a letto. Per fortuna devo solo attraversare un cancelletto.
Qualche giorno dopo, io e mia moglie andiamo al funerale. Di tutte le sue nuove “amiche”, le mie coinquiline che andavano matte per lui (compresa una ex), solo noi due eravamo lì a farci strappare il cuore in mille pezzettini minuscoli.
Da quel momento in poi, il 9 novembre di tutti gli anni a venire sarà un giorno drammatico.

Sarò isterica tutto il giorno e scoppierò a piangere in punti a caso della giornata, a volte senza rendermene conto. Una sera in particolare ricordo che cominciai a singhiozzare senza motivo, finché non mi resi conto di che giorno fosse.
Questo è successo tutti gli anni, puntuale come i mandarini a Natale, tutti i 9 novembre dal 2008 al 2013.

E’ a questo che pensavo la settimana scorsa, in metropolitana: nonostante l’anno complessivamente di merda, quest’anno il 9 novembre è passato liscio. Sarà che stavo tentando per l’ennesima volta di imparare il surf in una bellissima caletta delle Canarie con un gruppo di amici + la mia persona speciale (non nego che questo POTREBBE aver aiutato…), ma comunque non dubito che i miei futuri novembri saranno sempre un po’ meno peggio.

Ah, e qui una roba che alla luce di queste due storie, potrebbe risultare più comprensibile, rispetto a quando l’ho pubblicata.

Endkadenz Vol. I – il sorpasso dei Verdena.

13 febbraio 2015 by

Forse è troppo presto per scrivere una recensione, per me. Ancora non so neanche se e quanto mi sia piaciuto.

È che non posso ascoltarlo come tutti gli altri dischi, mentre cammino per andare a lavoro, o mentre lavo i piatti, perchè mi distraggo. È come se non richiedesse la mia attenzione, non mi rapisce e mi da il permesso di pensare ai fatti miei, ma al tempo stesso non mi da fastidio. Siamo sintonizzati, il che potrebbe sembrare una figata ma in realtà no, perchè semplicemente non mi chiede di essere ascoltato.

Non riesco ad isolare bene le tracce. L’ambientazione di quasi tutte le canzoni è vaga, aleatoria, lontana dai riff potenti ed inconfondibili a cui siamo abituati. 

Apprezzo lo stacco da Wow, soprattutto a favore della predominanza del pianoforte sulle tastiere.

L’unica che si discosta un po’ è il singolo (una scelta di marketing più che saggia, forse l’unico pezzo “diverso”, più affine ai Verdena di Wow o di Requiem), che mi ha fatto brillare gli occhi nell’anticipazione di qualcosa che poi, in realtà, nell’album non ho ritrovato.

Nelle sonorità e nell’ambientazione ci sento molto Solo Un Grande Sasso, anche se meno sofferto, meno dolorante, e molto più aperto.

Ed ho come l’impressione generale di sentire meno l’impronta, di solito marcata ed importante, di Luca. Non che la parte ritmica sia assente o mi faccia schifo, lo trovo solo meno incisivo, meno caratterizzante rispetto alla discografia precedente.

Ci ho pensato un po’, a questa nostra relazione, tra me e i Verdena. Ormai è decennale, e i lettori più o meno assidui di questo blog lo sanno bene, vista la quantità di articoli che ho dedicato loro negli anni.

Endkadenz, per me, è troppo sperimentale. 

I Verdena, dopo avermi regalato il capolavoro della mia maturità, stanno andando avanti, ed io, dopo anni ed anni, non riesco più a star loro dietro. Mi hanno doppiata. Loro progrediscono, sperimentano, avanzano, mentre io mi sono stoppata di faccia su Wow.

Sono felice di aver comprato il cd, e doppiamente felice di andare al concerto a marzo.

Aspetto con ansia il Vol. II di Endkadenz.

E continueró a provare, ad ascoltare, e non ho dubbi che prima o poi li raggiungeró, e che continueremo a viaggiare insieme, come abbiamo fatto dal ’99 ad oggi.

Le mie morti: Valerio.

11 febbraio 2015 by

Silvia ma come ti viene in mente di scrivere un post con un titolo del genere?
Cos’è, la giornata della presammale cosmica?

Calma, miei giuovini amici, tutto sarà esplicato.

Ultimamente (negli ultimi… ANNI) non riesco a scrivere molto e, diciamocelo, non è per mancanza di tempo, ma di idee.
Una volta ci tenevo tanto, ai contenuti del mio blog. Non volevo che fosse troppo personale né troppo impersonale, volevo che fosse interessante sotto parecchi punti di vista. Tanti post che scrivevo sono rimasti nel dimenticatoio perché “non abbastanza”.

Oggi, che ho avuto un pomeriggio semi-libero dal lavoro, mi sono ritrovata a pensare alle persone che ho perso nella mia vita, e mi sono accorta che stavo pensando come se stessi effettivamente scrivendo. Allora mi son detta: e perché no?
Devo diventare famosa con un blog, con QUESTO blog? Devo dimostrare qualcosa a qualcuno?

No, e questo è il motivo che mi spinge oggi, miei giuovini amichetti, a scrivere un post su quello che più mi aggrada. Anzi non solo UN post, ma una serie! Ne ho programmati ben 3, uno per ogni persona che, morendo, ha ucciso una piccola parte di me.

Non voglio confondervi, però: queste 3 persone non necessariamente sono state importanti per me quando erano vive.

Mi farò capire meglio col primo esempio: Valerio.

Valerio è morto il 4 maggio 2002 (ho dovuto sfogliare un saaaacco di Moleskine per trovare la data esatta……).
Io mi ero da pochi mesi trasferita a Bologna per l’università, ero nel pieno splendore di feste, musica, studentati e vita da squattrinati fuori sede. Mi stavo ambientando piuttosto bene, dove “piuttosto” vuol dire che mi divertivo come una deficiente.
Conoscevo 2-3 persone nuove al giorno, bevevo come una vecchia alcolizzata senza però risentire degli effetti malefici del post-sbronza (bello avere 20 anni… OH se era bello!), mi innamoravo più volte al giorno, andavo a lezione, studiavo, imparavo a cucinare e a fare le lavatrici… insomma, facevo la studentessa fuorisede, e avevo 20 anni. Mejo de così….

Un giorno di maggio (penso proprio il 4, o forse il 5) mi telefona la mia migliore amica dell’epoca, V., che avevo lasciato a Roma. Mi ricordo che mi chiamò al telefono fisso dello studentato: era un’impresa titanica superare centralini e attese di collegamento corredate da rumori strani, ma nel 2002 telefonare al cellulare costava. Meglio chiamare da casa, lo faceva anche mia madre!
Non mi ricordo cosa mi disse precisamente, ma il succo era: stanotte Valerio è morto nel suo letto.

Chi era Valerio?
Nella mia vita, nessuno di importante. Un conoscente, neanche un amico. Non andavamo nemmeno allo stesso liceo. Ci eravamo conosciuti ad una festa di compleanno di un mio compagno di classe, credo giocassero a basket insieme ma non ricordo bene. Lui era con un suo amico, Michele. Io avrò avuto 15-16 anni, forse 17, e lui ne aveva uno in più. A quel tempo io e V. il pomeriggio tornavamo a scuola per suonare: il lungimirante preside ci aveva permesso di improvvisare una saletta per buttarci dentro una batteria sgangherata e un paio di amplificatori messi male, così la scuola diventava il posto in cui ci ritrovavamo il pomeriggio. Quando sentii che Valerio suonava la batteria, lo invitai alla saletta, un pomeriggio.
Era bravo? Non mi ricordo, quindi probabilmente non era proprio John Bonham, ma neanche l’ultimo degli sfigati. Probabilmente sapeva almeno tenere il tempo e non era neanche tanto terribile. Ricordo bene però che era mancino, perché ogni volta che veniva in saletta dovevamo smontare e rimontare la batteria per farlo suonare.
E ricordo molto bene anche quanto mi piaceva! Oltre ad essere molto bello, era anche simpatico e alla mano, mi faceva ridere di gusto (ma questo non è indicativo, le ragazzine a 16 anni ridono anche se gli fai BUH). Non ho mai capito se anche lui avesse dell’interesse per me, perché il primo a farsi avanti fu il suo amico Michele. Io però, infatuata di Valerio (e probabilmente di altri 20 ragazzi più grandi del mio liceo) non ne volli sapere. Ed ecco là che Valerio e Michele non vennero più a suonare con noi.
Ci rimasi male? Ne dubito fortemente… a 16 anni ero molto impegnata a scoprire la vita, il tempo mi scivolava tra i piedi a velocità supersonica, quindi temo che Valerio sia stato presto rimpiazzato nei miei pensieri da altri Danieli, Simoni, Alessandri etc.
Però Valerio era anche mio vicino di casa. Abitava nel palazzo di fianco al mio, quindi non fu del tutto dimenticato per sempre, perché lo incontravo abbastanza regolarmente. Ci si scambiava un “ciao”, un sorriso, e via. Ogni volta che lo rivedevo pensavo “Madonna sei bello”, ma poi moriva là, io non lo cercavo, lui non cercava me. A 16 anni ero convinta di essere un cesso terrificante, antipatica e sgradevole. Solo dopo i 20 ho scoperto di aver avuto anche io qualche ammiratore, ma a quei tempi, ogni parola che mi veniva rivolta da un regazzetto credevo fosse un miracolo divino. Non avrei MAI avuto il coraggio di chiedergli di vederci, figuriamoci, lui così carino e io SCHIFO.
Vabbè, ce li avrete avuti pure voi 16 anni, no?

La storia sarebbe finita qua, ed io probabilmente non avrei mai più sentito parlare di Valerio, se non fosse morto. Sarebbe semplicemente scivolato via in maniera del tutto indolore dalla mia vita e dai miei ricordi, dolcemente, senza lasciare tracce. Se nessuno me ne avesse più parlato, non lo avrei neanche riconosciuto se incontrato per strada, e non mi sarei ricordata neanche il suo nome se qualcuno me l’avesse nominato.

Invece si è ammalato di leucemia.
Leggende narrano che un giorno stava giocando a calcetto, bello come al suo solito, con lo stuolo di ragazzine sbavanti che lo guardavano con le dita aggrappate alla rete, e lui è svenuto ed ha cominciato a perdere sangue dal naso. Dal nulla, così, senza traumi, niente. Svenuto.
In realtà (lo scoprii anni più tardi) non successe mai nulla di così teatrale: tornando da un allenamento di pallanuoto, la madre notò che aveva dei capillari rotti negli occhi.
E io comunque non ho mai saputo niente (per farvi capire quanto eravamo lontani come persone), fino a quella mattina di maggio 2002, in cui V. mi chiamò per dirmi che non c’era più.

Come reagii sul momento? Non me lo ricordo. Piansi? No, non lo conoscevo abbastanza. Lì per lì però fui presa da quella smania di protagonismo tipica dell’adolescente, dovevo chiamare tutti, informare tutti, volevo che tutti sapessero che lo conoscevo, e poi ero lontana da casa da qualche mese, mi sentivo un po’ persa perché non potevo parlarne con qualcuno che potesse condividere con me almeno il contesto o gli amici in comune. Potevo solo raccontare e fare la vittima, e darmi un tono un po’ mesto.
Ma questa mia reazione superficiale durò molto poco. Non ricordo con esattezza il decorso dei miei pensieri, non ci furono rivelazioni improvvise, ma dal 5 maggio 2002 io cambiai completamente. Mi feci il mio primo tatuaggio, e un piercing sulla lingua. Ricordo che il mio pensiero era sempre: Valerio non può più farlo.
Ma la mia non era tristezza: era una pura e semplice considerazione. Cambiai totalmente il mio atteggiamento nei confronti delle persone. Smisi di rispondere in maniera acida a chiunque, per dimostrare quanto ero intelligente. Che bisogno c’era? Cominciai a chiedere scusa quando sbagliavo. Cominciai a non essere più in grado di dire bugie.
Qualcuno potrebbe obiettare: avevi 20 anni, avevi cambiato città, eri al primo anno di università, era pure ora che crescessi!
E’ vero. Probabilmente questo cambiamento, che mi ha reso la persona che sono ora, invece dell’acida adolescente che doveva sempre e per forza aver ragione, sarebbe avvenuto indipendentemente dalla morte di Valerio.
Ma forse la transizione sarebbe stata più lenta e tardiva, e questo non lo saprò mai. In quel momento storico della mia vita, io per mesi e mesi ho avuto la sua scomparsa come punto di riferimento di ogni mio singolo comportamento.
La sua morte, infatti, alla fine la piansi, con un ritardo di qualche mese. Un ragazzo di 21 anni. Mai bevuto né fumato, a quanto si diceva in giro (ma io non ci ho mai creduto). Bello, gentile, simpatico. E poi, dopo tutto quel tempo in cui avevo condiviso la sua presenza, adesso mi sembrava di averlo sempre avuto vicino, lo sentivo come una guida spirituale, o perlomeno qualcuno che mi camminava vicino in silenzio e giudicava le mie azioni e le mie parole.

Io, V. e I., un’altra amica in comune, lo andavamo a trovare al cimitero di Ostia Antica, ogni tanto. Quando stavamo lì, sedute davanti alla sua tomba, ci fumavamo una sigaretta e ridevamo. Gli raccontavamo le cose come se lui fosse lì davanti a noi, gli dicevamo “Ti ricordi che palle girarti la batteria ogni volta, Valè?”

Gli scrissi anche una cosa che gli sarebbe una cifra piaciuto essere una poesia, e gliela lasciai lì, sulla tomba che condivideva con il nonno. Un’opera non degna di essere pubblicata, MAI e in nessun luogo, ma per farvi capire cosa mi frullava in testa in quel periodo, mi umilierò citandone il finale:
….userò il tuo ricordo per ricordarmi di
v i v e r e
al quadrato
anche per te
che nonostante i tuoi sforzi
non hai potuto.
Tu vivi ancora in tutti quelli che come me
amano la vita
e che dalla tua lotta per lei
hanno imparato a rispettarla e a difenderla.

Ti prometto che lotterò per la mia vita
con le unghie e con i denti
come se fosse
la tua”.

Tralasciando la forma, questo è quello che ha significato per me la morte di Valerio, in quel periodo caotico della mia vita: la morte della “vecchia” Silvia, della sua fastidiosa parte adolescente.

All’inizio avevo accennato al fatto che non volevo trattare di persone importanti per la mia vita, e spero che ora sia chiaro cosa intendevo.
La mia bisnonna Celeste è stata parecchio più importante di Valerio, ma non ne parlerò nei miei prossimi due post, che invece riguarderanno (in rigoroso ordine temporale), Luciano e Aldo.

Bè, dai, non è stato così triste come poteva sembrare dal titolo, no?

Monday Song n° 57

2 febbraio 2015 by

Il Cliente Emotivo.

27 gennaio 2015 by

Nel dorato mondo della consulenza presso cliente, il sogno di ogni consulente che si incammina verso un nuovo ufficio è quello di trovare una persona, UNA SOLA persona, che sia inequivocabilmente identificata col responsabile del nostro progetto (che sia uno sviluppo nuovo, o semplice manutenzione ordinaria).

E se vogliamo sognare proprio in grande, questo responsabile è anche un professionista nel suo campo, qualunque esso sia; sa gestire le proprio risorse (interne ed esterne), sa discernere perfettamente quando delegare o quando occuparsi in prima persona di una attività particolare, e MAGARI sa anche elaborare richieste dettagliate e precise verso il consulente.

Dulcis in fundo, potrebbe anche essere simpatico, né juventino né laziale, magari educato e rispettoso verso gli altri esseri umani in generale.

Poi il consulente si sveglia tutto sudato, e torna mestamente nel suo ufficetto, dove verrà continuamente e senza soluzione di continuità subissato da miriadi di richieste dirette che, ignorando deliberatamente il tuo diretto responsabile, vengono generalmente redatte in maniera oscura (Tipicamente: “il sito non va, cosa avete fatto?”, oppure “Il report del portale c’ha i numeri sbagliati!”) e talmente urgenti da farti credere che la mancata visualizzazione del banner del meteo possa seriamente minare la già instabile situazione politica del Medio-Oriente, scatenando la 3° Guerra Mondiale.

Ma non perdiamoci in vaneggiamenti, perché io, oggi, cari amici consulenti, vi svelerò il segreto per tenere a bada il Cliente Emotivo.

Definizione di Cliente Emotivo (da qui in poi abbreviato in CE): non vi fate ingannare dal nome, il CE non è la signora di 40 anni che ancora non ha capito come cazzo ha fatto a trovarsi responsabile di un reparto, tipicamente di un sottoreparto informatico, di cui non capisce NIENTE. O meglio: si, la definizione include anche lei, ma non si limita a questo. Il CE può essere un uomo, un ragazzo, una vecchia arpia, insomma non conosce limiti di sesso né di età. Quello che lo/la contraddistingue è:
1 – Essere in una posizione di responsabilità all’interno dell’azienda cliente presso cui prestate il vostro operato;
2 – Essere quasi totalmente all’oscuro di tutto ciò che abbia a che fare con la parte tecnica del suo ambito (ad esempio, il responsabile dell’area Analisi della Business Intelligence che non sa cosa significa QUERY)
3 – Essere molto ansioso e non saper reggere neanche il più piccolo accenno di pressione, fatta anche involontariamente dall’ultimo degli stagisti.

Vi suona qualcosa?
Pure a me. Mi suona da circa 5 anni e in 4 clienti diversi.

Per questo ho deciso, miei giuovini consulenti da macello, di condividere con voi le conoscenze acquisite in questi pochi anni di esperienza sul campo, integrate dagli ottimi corsi interni che la mia azienda organizza per tutti i consulenti che hanno a che fare con qualsiasi tipo di cliente.
Con il CE, fatevene una ragione, è impossibile connettere a livello professionale. Il personaggio in questione di professionale ha ben poco: non è in grado né di gestire le risorse (che solitamente si autogestiscono in maniera molto efficace) né le richieste, sia quelle in entrata che quelle in uscita.

Ora, eliminiamo dunque la connessione a livello professionale, che è la più semplice, la più pratica, la più sbrigativa e soprattutto la più efficace sotto tutti gli aspetti.
Che cosa rimane? Ebbene sì, so che avete paura a continuare a leggere… Ma dovete farvi forza, ed interconnettervi col CE EMOTIVAMENTE.

Lo so, lo so, è orribile. E anche difficilissimo, soprattutto per un professionista serio (quale siete voi) che si ritrova a prendere ordini inesatti, imprecisi, a volte completamente sbagliati, e per di più farfugliati in linguaggi incomprensibili, da un perfetto imbecille che, oltre a non essere in grado di fare il suo lavoro, prende al mese il vostro RAL annuale.

E’ dura, non lo nego.

Non soffermiamoci su quanto sia doloroso: pensiamo solo al COME affrontarlo.
L’unico modo per connettersi emotivamente a qualcuno di cui non ve ne frega assolutamente niente di niente, è fingere. Dovete sempre, costantemente fingere interesse per quello che dice, per i suoi interessi, per le sue “battute”. Ogni volta che vi viene in mente di urlare “ ESTICAAAZZIIIIIIIIII”, il vostro cervello PRO dev’essere in grado di convertirlo in “MH, davvero?” “Maddai!” “Certo che è davvero interessante!”.
Certo, questa è una skill che non si impara in un giorno. Ci vuole costanza, pazienza, dedizione e tanta voglia di farcela. Dimenticate tutte le vostre opinioni personali, esse non esistono più. Scordatevi di esprimere un parere qualsiasi non richiesto che non sia mitigato da “Secondo me… ma in realtà NON SO”. MENO CHE MAI aprite bocca durante discussioni che abbiano a che fare con: Politica, Religione, Calcio. Anche interrogati, rispondete sempre con CAUTELA e non date MAI un giudizio chiaro e definitivo. MAI.

Per concludere questa piccola guida pratica, ecco un comodo frasario che traduce da Linguaggio Professionale a Linguaggio Emotivo:

PRO: La tua richiesta non ha senso neanche in italiano, figuriamoci su un sistema informatico.
EMO: La tua proposta è veramente interessante, fammi controllare con il mio capo gli strumenti e i tempi di realizzazione, non vorrei che ci fosse bisogno di comprare software molto costosi/di uno sviluppo di molti mesi.

PRO: Ci vogliono due ore scarse.
EMO: Cerco di mettermici subito, guarda, se non entrano ulteriori urgenze spero di finirlo in 3 giorni circa.

PRO: Ma sei deficiente? Io sono un consulente informatico, col cazzo che ti vado a prendere il pranzo!
EMO: Mi dispiace tanto, ho un appuntamento a pranzo, mangerò fuori e tornerò un pochino più tardi, non conviene che mi aspetti per mangiare….

PRO: Questo bordello lo ha fatto il tuo collega sistemista, checcazzo vuoi da me se non c’è connessione internet????
EMO: Non ti preoccupare, indago subito per risolvere il problema.

Il CE, e questo dovete tenerlo sempre bene a mente, ha costantemente bisogno di essere rassicurato. Non capisce la metà di quello che accade nel suo reparto, e non si fida né dei suoi colleghi né (soprattutto) dei consulenti esterni; la sua mancanza di qualsiasi tipo di professionalità non gli permette di riconoscere i collaboratori validi e quelli da cui tenersi alla larga. La frase che più frequentemente uscirà dalla vostra bocca sarà sempre: “NON TI PREOCCUPARE” e “CI PENSO IO”.
Spesso e volentieri dovrete occuparvi di cose che non vi competono, e questo porterà presto alla dipendenza del CE con voi. Questo può risultare in una grande e continua rottura di palle, ma piano piano vi garantisco che la fiducia del CE si focalizzerà su di voi, ed avrete il campo sempre più libero per prendere decisioni importanti al suo posto: basta fargli pensare che sia una sua idea.

Giuovini colleghi consulenti: non nego che è una vita dimmerda, ma visto che ci siamo dentro fino al collo, almeno cerchiamo di galleggiare.

Monday Song n° 56

27 ottobre 2014 by